EPOCHE| Il prefetto e l’alibi perfetto
0settembre 21, 2015 by giancristiano
La notizia dell’accorpamento della prefettura di Benevento alla prefettura di Avellino, con la conseguente fine della figura del prefetto di Benevento, ha suscitato sorpresa, polemiche, scandalo e il solito lamento dell’orfano sannita: “Ci tolgono anche la prefettura”. In realtà, le prefetture d’Italia da molto tempo non sono più le prefetture napoleoniche che furono un tempo e i loro inquilini, privati dei poteri specifici, sono diventati delle belle statuine. Ci si può lamentare perché una bella statuina è accorpata a un’altra bella statuina? Purtroppo, sì. Così, a babbo morto, si è attivato una sorta di pronto soccorso nel tentativo disperato di resuscitare Lazzaro che qui, mischiando sacro e profano, sarebbe nientemeno che lo Stato: “Salviamo la prefettura”. Che infinita tristezza.
La verità è che l’istituto prefettizio andrebbe abolito – come di fatto è avvenuto in Italia attraverso lo svuotamento dei suoi poteri – anche se fosse ancora nel pieno dei suoi poteri e andrebbe abolito proprio per questo motivo. Tra la democrazia e la prefettura non c’è accordo ma disaccordo e non bisogna ricordare il memorabile “Via il prefetto” di Einaudi per sapere che il prefetto è il rappresentante del governo in periferia, la sua longa manus che proprio perché longa e proprio perché manus ha sempre impedito con il centralismo, con le circolari, con i provvedimenti, la nascita della vita democratica che, come tutte le vite, non viene al mondo senza sforzi e senza prove, senza conflitti e senza responsabilità. Ma la prefettura – si dirà – essendo la presenza dello Stato sul territorio è sempre stato un presidio di garanzia per la democrazia e per la libertà. Nientemeno? Invece, è vero proprio il contrario: il fascismo si impose nel Mezzogiorno, dove non esisteva, con le prefetture. A Benevento – tanto per stare sulla storia locale – il prefetto Giuffrida poté dire senza paura e senza smentita: “Il fascismo sono io”. Se questo accadde è perché l’istituto prefettizio è il frutto di uno Stato in sé dittatoriale ossia lo Stato napoleonico che diviso in province o intendenze era governato – meglio: controllato – dai prefetti che facevano capo al potere centrale di cui erano emanazione.
Ma si dirà – ancora – che senza la prefettura la vita democratica è fuori controllo e senza nessun controllo vinceranno sempre i più forti e i signori locali si lasceranno andare ai loro porci comodi. Addirittura? Ahimè, qui non ho bisogno né di un nome autorevole, né di una bella teoria; no, qui basta l’età la quale mi dice che quando il prefetto era nel pieno delle sue funzioni anche i porci comodi erano nel pieno delle loro attività e, allora, delle due l’una: o il prefetto è garanzia di legge e libertà e quindi non ci sono i porci comodi oppure se ci sono i porci comodi la prefettura non è garanzia di legge e libertà.
Nel difendere la prefettura si difende l’idea vana di uno Stato salvifico che non può salvare nessuno se non si inizia a salvarsi da soli con le lotte civili. In particolare, i meridionali hanno un rapporto perverso con lo Stato perché da un lato lo invocano e dall’altro lo fregano. Si dice Stato ma in realtà si pensa agli uffici, alle carte, alle prebende, ai permessi, alle entrature, alle raccomandazioni e a tutto quel mondo parassitario fatto di mediazioni e permessi in cui si specializzano presto i deputati. La prefettura, dopotutto, non è l’unico istituto che ha svolto la funzione di centralizzare la democrazia in un ministero.
Un altro caso emblematico è stato quello del provveditorato agli studi con cui il ministero dell’Istruzione ha coltivato l’illusione di governare la scuola e di fatto ha impedito la nascita della libertà scolastica. Proprio Einaudi ricordava quel ministro in Francia che guardava l’orologio e diceva che a quell’ora nella terza classe di tutti i licei i professori stavano spiegando Cicerone: e così si è fatto per l’Italia con il modello statale napoleonico con il quale da Roma si son dati ordini a tutte le scuole di ogni ordine e grado, “pubbliche” e “private”: ordinamento, orari, tasse, nomine degli insegnanti, degli impiegati di segreteria, dei portieri e dei bidelli, ammissioni degli studenti, libri di testo, ordine degli esami, materie insegnate. Dio mio che brivido dietro la schiena. Ancora oggi le cose non sono forse così? E la cosa grave è che lo è più nelle menti che nella realtà, più nelle volontà degli insegnanti che nelle intenzioni dei governi. Ciò significa che il veleno dello statalismo – anticamera di ogni dittatura – è entrato così in profondità, vuoi con il monopolio scolastico vuoi con la prefettura, che i primi a dolersi di un suo superamento o smantellamento sono proprio coloro che dovrebbero gioirne. Forse, perché agli italiani piace più di tutto lo Stato amministrativo che è un alibi perfetto per la loro servitù volontaria con cui piangono e fottono.
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