di Giancristiano Desiderio
Perché il gioco? Il gioco mette in fuorigioco la tendenza e la tentazione totalitaria che sono presenti nella metafisica. Che cos’è la filosofia se non un programma di salvezza tramite la conoscenza che ritiene di far riposare l’uomo nella sua vera natura e invece lo danna e lo annienta nell’inumano? Il meccanismo è abbastanza semplice da capire: il mondo e la natura umana sono ricondotti a una struttura razionale il cui sistema di sicurezza è afferrato dal sapere umano che entratone in possesso – unendo verità e potere – ne diventa padrone realizzando così, finalmente, la libertà e la pace in terra. Però, non si manifesta il paradiso: si aprono le porte dell’inferno come accaduto nel Novecento. Come se ne esce? Smontando il cortocircuito che c’è tra verità e potere. I filosofi – alcuni – hanno visto nel concetto di gioco un modo per evitare il cortocircuito. Il gioco, infatti, non si lascia ricondurre ad una struttura razionale che possa essere posseduta da una mente che, invece, per comprenderlo deve imparare a stare al gioco. Il filosofo italiano che ha maggiormente prestato attenzione all’ermeneutica del gioco è Lucio Saviani.
L’editore Moretti & Vitali ha ora pubblicato l’ultimo testo di Saviani dedicato al problema filosofico del gioco completando un percorso che comprende altri precedenti lavori come Voci di confine, A dadi con gli dei, Segnalibro ed Ermeneutica del gioco. Il titolo del nuovo libro è molto bello, Ludus Mundi, ed il volume è impreziosito da un poemetto di Pasquale Panella e dalla Postfazione critica di Aldo Masullo. Le pagine di Saviani sono anche – lo dico a beneficio del lettore – una sorta di storia della filosofia per frammenti e intuizioni, lampi ombre e bagliori, nei quali ci si può perdere. Tuttavia, per trovare la via di casa ci si deve smarrire e per imparare a giocare non c’è altro modo che provare a giocare (come per imparare a nuotare, notava Hegel, non c’è altro da fare che tuffarsi).
Il tema del gioco mi è caro. Servendomi del calcio ho mostrato come il gioco riveli la condizione umana. Infatti, più che essere il gioco del calcio una metafora della vita – come diceva un po’ a sproposito Sartre – è la vita ad essere una metafora del gioco del calcio. Perché? Perché il gioco del calcio ci offre un modello cognitivo in cui vive il più antico e squisito problema filosofico: il rapporto uno-molti. Posso qui illustrare, per un dialogo con Lucio Saviani, alcuni elementi di filosofia del calcio. Prima di tutto il controllo che equivale alla ragione: per giocare a calcio è necessario saper controllare il pallone, averne cura, custodirlo, persino nasconderlo e, insomma, signoreggiarlo. Il controllo della palla, però, non è fine a se stesso. E’ necessario ma non sufficiente. Una volta controllato, il pallone va messo in gioco. Il secondo elemento è l’abbandono: la palla va calciata, passata, lasciata, abbandonata. Il controllo e l’abbandono sono le due regole fondamentali su cui si regge il calcio. Ma anche la nostra vita.
Terzo elemento: i giocatori. I giocatori e non il giocatore. Il calcio, infatti, richiama la pluralità. I giocatori sono i creatori del gioco. Ma solo apparentemente, perché non sono i giocatori a fare il gioco ma è il gioco che fa i giocatori. Per quanto il gioco si produca tra i giocatori, nessun giocatore potrà mai essere il padrone del gioco. Il gioco si sottrae alla presa. Se un giocatore è padrone del gioco non si può giocare, proprio come accade con la vita: se un uomo – uno Stato, una Chiesa, un Partito – è padrone della vita non si può vivere. I giocatori sono istituiti dal gioco e altro non possono fare che giocare, servire il gioco, proprio come gli uomini altro non possono fare che vivere.
Quarto elemento: la palla. La palla è, come la verità, sempre in gioco e, come la verità, va conquistata e la si conquista solo se è messa in gioco. La palla/vita/verità non possono non essere in gioco e, quindi, la vita della verità è essa stessa parte del gioco e si manifesta attraverso gli “errori” del mondo. Il gioco del mondo è il gioco di una partita di calcio in cui giocando si produce quella forza individuante in cui ogni giocatore acquisisce posizione, luogo, durata, ascesa, declino, crescita, sparizione, fulgore, ombra e l’Uno non è la soppressione dei Molti ma la loro relazione e i Molti non sono l’anarchia ma il governo di se stessi.
Ma il gioco di controllo e abbandono davvero è assente nella tradizione del pensiero occidentale? Non sarà che la metafisica è dipinta, come si fa con il diavolo, molto peggio di quanto non sia? Il concetto di gioco consente di re-inventare la tradizione, sia essa metafisica o no, e di comprenderne luci e ombre che sembravano perdute. In particolare, è nella stessa storia del pensiero occidentale che ci sono gli anticorpi al virus totalitario che si innesca ogni volta che la vita è concepita come una struttura razionale. Più della metà della filosofia contemporanea è ispirata dal pensiero hegeliano ed era lo stesso Gadamer a ricordare che la dialettica di Hegel va ripresa nell’ermeneutica. Ma al di là delle citazioni conta l’idea della filosofia – è questo il sottotitolo del testo di Saviani – e un’idea di filosofia è quella in cui si giunge a riconoscere alla filosofia un suo proprio metodo che è quello riassunto nella formula crociana della “logica della filosofia” che Gadamer riprendendo alla lettera Croce e Collingwood chiama logica vivente della domanda e della risposta. Nel nuovo e antico rapporto con cui Hegel pensa l’essere e il nulla c’è il valore del pensiero che rivela a se stesso i predicati del giudizio. Da dove li tiriamo fuori quando pensiamo? Dalla nostra esperienza e il pensiero è una rammemorazione dell’esperienza. Quelle cose strane che si chiamano categorie dello spirito altro non sono che un modo di dire noi stessi, la nostra vita e la nostra vitalità che ci dà insieme vita e morte e con la quale ora danniamo e ora redimiamo il mondo. Le nostre umanissime opere si lasciano pensare dai predicati che prima erano atti/fatti e ora sono un lampo di luce che ci illumina la vita alla quale ritorniamo e dalla quale non ci allontaniamo mai – come non ci si allontana dalla propria ombra – perché lo stesso pensare e giudicare la vita è opera del lavoro o del gioco della fatica del concetto che crea incessantemente il mondo e i suoi abitanti.