di Giancristiano Desiderio
All’inizio del millennio la casa editrice Mimesis pubblicò un libro intitolato Gettare Heidegger. La tesi dell’autore, Luciano Parinetto, era chiara fin dal titolo: lasciare alle ortiche quello che era considerato il maggior filosofo del Novecento. Il programma di Parinetto si è in parte realizzato: Heidegger non è il classico “cane morto” della tradizione filosofica ma di certo non è più il fondamentale punto di riferimento del pensiero continentale (anche perché la scolastica distinzione tra analitici e continentali è andata sbiadendosi). Tuttavia, l’autore di Essere e tempo continua a far parlare di sé. Non per la filosofia ma per la politica e – dopo la pubblicazione dei Quaderni neri – ancora per il suo antisemitismo. Così Heidegger non rischia di essere un “cane morto” ma di diventare un “buco nero” perché il suo pensiero, macchiato indelebilmente dalla scelta nazionalsocialista e dalle idee antimoderne e antisemite, passa in secondo piano e, rifiutato ma non ben criticato, rimane sullo stomaco come un frutto indigesto. Si pone allora il problema di una critica rigorosa della filosofia di Heidegger mostrando come non solo abbia fallito politicamente ma anche lì dove si ritiene sia stato più avveduto: nella teoria. Questa critica l’ha fatta Renata Viti Cavaliere.
Saggi sul futuro, pubblicato da Le Lettere, è il testo con cui Viti Cavaliere, allieva di un interprete non inerte di Croce come Raffaello Franchini e maggiore studiosa italiana di Hannah Arendt, fa i conti con Heidegger e con il suo stesso passato heideggeriano nel saggio “La storia e il destino dell’Essere”. Il problema che è alla base dell’opera che nel 1927 diede ad Heidegger fama e popolarità è la modernità che produce sradicamento. L’obiettivo del filosofo, attraverso la critica del presente e una ricognizione della storia della metafisica, è dare al Dasein – esser-ci ossia l’uomo e in particolare l’uomo tedesco – un radicamento originario, un nuovo destino, una vita autentica. L’analitica esistenziale mostra come l’esistenza moderna, che ha dimenticato l’essere, altro non è che caduta e inautenticità e per risollevarsi o redimersi è necessario fare una “scelta” in cui si risponde alla “chiamata” che si rivela nell’eredità, nel popolo, nella comunità di appartenenza. Tutto il percorso di Essere e tempo conduce a questa scelta in cui ci si decide. Per cosa? Lo si può dire con le parole di Heidegger: “Ma poiché l’Esserci, carico di destino, per il fatto di essere-nel-mondo esiste sempre e per essenza come con-essere con gli Altri, il suo storicizzarsi è un con-storicizzarsi, che si costituisce come destino comune. Con questo termine intendiamo lo storicizzarsi della comunità, del popolo”.
Essere e tempo, con tutto il suo linguaggio ispirato e sacerdotale che è la cifra costante di Heidegger, è un testo di filosofia che ha in sé un progetto politico che il filosofo crederà di mettere in atto incontrando Hitler nel 1933. In una lettera a Elisabeth Blochmann del 30 marzo 1933 – il famigerato discorso del rettorato è del maggio dello stesso anno – Heidegger scriveva: “Gli eventi attuali hanno su di me e sulla mia concentrazione un insolito potere. Accrescono la volontà e la sicurezza di agire al servizio di una grande missione e di cooperare alla costruzione di un mondo fondato su un popolo”. L’antimoderno Heidegger vide nella Germania di Hitler l’occasione di realizzare una “rivoluzione metafisica” come se il germanismo fosse stato la nuova Grecia. Una pessima politica e una pessima filosofia e una pessima politica perché una pessima filosofia. Aveva proprio ragione Croce quando in quegli anni parlava del “caso Heidegger” come di una prostituzione del pensiero mentre elogiava Karl Barth che seppe difendere l’autonomia dell’intelligenza e della fede.
Heidegger, in definitiva, fallisce proprio là dove si crede sia vincente: nella critica alla modernità. Il suo pensiero non ci dà un principio per intendere la storia e per fare la storia secondo libertà. Al contrario, nel cosiddetto “secondo Heidegger”, la misteriosa figura della “storia del destino dell’Essere” schiaccia ancor più l’uomo che più che essere il “pastore dell’Essere” ne è il giocattolo: “La storia dell’Essere – osserva Renata Viti Cavaliere – non ha proprio nulla a che vedere con la concezione della storia che è cammino di libertà pur tra mille ostacoli e condizionamenti. La heideggeriana storia dell’Essere non include il concetto di libertà né come principio esplicativo del corso degli eventi né come principio d’azione. Inquieta perciò il riferimento pervicace all’assoggettarsi dell’uomo all’Ereignis, che pare modellare la struttura epocale del farsi storico”. In Heidegger il vacuo ontologismo da un lato e il falso storicismo dall’altro lato offuscano anche quell’humanitas che invece, come ripeteva Hannah Arendt, ha e deve avere un significato chiaro: è autonomia, cultura, libertà e salvaguardia dell’uomo dal rischio di diventare giocattolo della Natura o razza e della Storia o classe.