di Giancristiano Desiderio
Lì dove tutti conoscono tutti e tutti sanno tanto, troppo, tutto di tutti non accade nulla e quando qualcosa accade o è una catastrofe o un delitto o uno scandalo o tutte le cose insieme. Così gli eventi che accaddero durante la festa di sant’Alfonso sono ancora memorabili e a distanza di tempo venerandi e terribili.
In nomine Patri et Filii et Spiritus Sancti – Amen – La messa è finita, andate in pace.
Fuori invece c’era la guerra, ma ancora non lo sapevano. La voce della morte violenta del povero Miniello non era arrivata in chiesa ma di lì a poco sarebbe giunta perché le cattive notizie non camminano, volano. Quattro giovani più uno sciancato issarono sulle spalle la statua del Santo e Alfonso, con quel suo cuollo storto, ondeggiò, faceva un po’ di qua e un po’ di là, poi la statua si assestò e la processione ebbe inizio con le campane di papa Sisto che suonavano nella valle. Mentre Alfonso vestito a festa usciva dal duomo dell’Assunta, ancora intronato di litanie e puzze estive, dall’altra parte del paese e al di là della lacrima del Martorano, Miniello era riverso a terra con un rigagnolo di sangue che gli usciva dalla tempia e uno sputo che gli rigava la bocca.
La giornata moriva e la notte nasceva. Sono stati i miei peccati, Gesù mio, perdon pietà. Le donne, come prefiche ad un lutto, si battevano il petto e cantavano e tutti dietro, come loro figli e nipoti, ripetevano il canto cantilenando. Davanti al Santo c’era la banda dei musicanti con trombe, tamburi, piatti e ad ogni passo era tutto uno statuff, tac, bum che rendeva l’aria, ancora ferma dalla immota controra, gonfia di suoni e chiasso che si amplificava per le vie del paese e annunciava l’arrivo della processione.
Una pietra in fronte per il controllo di una piazza triste e abbandonata. Quando lo trovarono il rigagnolo rosso sangue era diventato una pozza. Lo guardavano e sentivano la musica del corteo che chiedeva perdono. Non attesero il maresciallo. Lo presero in spalla, due avanti e due dietro, e si avviarono in processione verso la processione. Il Morto andava incontro al Santo.
La morte di Miniello, sessant’anni, cinque figli, una moglie, amore e dolore, arrivò in paese e trasformò la festa in funerale. Sant’Alfonso mio, sant’Alfonso nostro, fai luce. Dietro al Morto si era fatta una gran folla e il popolo, senza sapere né leggere né scrivere, ritrovò nel petto le parole del Padre nostro:
Padre nostro, che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male.
Amen.
Una processione lenta, senza musica, un atto di dolore e di espiazione. Tra la folla c’erano anche gli assassini e la mano che aveva colpito Miniello che ora morto e insepolto toglieva e metteva i peccati del mondo. Non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male, libera nos a malo.
I due cortei si incontrarono al centro del Ponte che unisce e divide il paese vecchio dal paese nuovo. La musica cessò, le donne piangevano e il sole cadeva dietro le colline. Il prete guardò il Morto, gli chiuse gli occhi e lo benedisse. Si girò e fece cenno ai giovani e allo sciancato di mettere giù il Santo e prendere il Morto.
La statua fu appoggiata a terra, mentre Miniello, morto e ancora vivo di sangue e carne, fu alzato a spalla in faccia all’ultima luce del giorno. Alfonso era Miniello, Miniello era Alfonso. La processione riprese il cammino e una donna con voce insieme calma e isterica cominciò:
Sono stati i miei peccati, Gesù mio, perdon pietà.