di Amerigo Ciervo
Cari studenti della III JW dell’istituto “Filolao Scannagatti” di B., oramai s’è concluso il vostro percorso quinquennale e, con il rito della chiusura del “pacco”, è terminata anche l’annuale celebrazione dell’esame di stato. In Italia, paese cattolico, dopo il mese dedicato alla Madonna e quello al Cuore di Gesù, arriva il mese dedicato all’esame di stato. Immagino siate tutti felici. Il mare e le baldorie estive vi attendono. Non ho dubbi a riguardo e anch’io sono felice per voi. Ma – qualche sera fa – mentre mi predisponevo alla visione dell’ennesima partita dei campionati del mondo, ho ricevuto una telefonata di un vostro compagno che mi ha diffusamente raccontato, con una dovizia finanche eccessiva di dettagli, le vicende del suo esame. Il vostro amico mi ha fatto perdere il primo tempo della partita ma, nonostante la grave “colpa”, non gli serbo rancore. E’ stata una sua frase – buttata lì, tra una maledizione rivolta ai signori commissari e severissime quanto improbabili riflessioni sulla pratica del sesto comandamento riferite ad altre – a convincermi di dover condividere con voi tutti quanto segue. “Prof, ho studiato e studiato e solo questo ora mi ritrovo”. Per consolarlo, gli ho subito ribattuto che, da qualche anno, la scuola, in Italia, serve proprio a questo: a far capire a chi la frequenta quale sarà il suo posto nella società. Un po’ come la ninnananna nell’antica cultura contadina. “Ninno nuje simme le pecorelle,/ ninno ‘o lupo ‘nce vole sbranà/ E so’ cient’anne, forse so’ mille/ninne nuje simme carne pe’ chille.” In sintesi: pecore siamo e pecore dobbiamo restare. La scuola – ho cercato di spiegargli – non è un corpo separato dalla società civile. E se, insieme alle politiche neoliberiste che hanno contribuito ad allargare viepiù la forbice sociale, si è andata affermando la questione di una falsa “meritocrazia”, di cui si sono fatti corifei convinti anche coloro che di tali rappresentazioni ideologiche restavano regolarmente vittime, la scuola non ne è uscita indenne, smarrendo, quasi per intero, la sua funzione primaria, ossia quella di creare le condizioni per una reale crescita sociale e democratica, nella direzione indicata dal celeberrimo articolo 3 della Costituzione (“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”). Un articolo molto citato ma pochissimo applicato. “Prof. Ma così non mi consolate. Anzi buttate olio sul fuoco…” ha amaramente ribattuto il mio alunno, le cui capacità di riflessione e di ironica sagacia, in grado di produrre una ben strutturata autonomia di pensiero, ho potuto, sia solo per un paio di anni, cogliere e apprezzare. “Ma hai dimenticato la lezione di Bruno? La filosofia non è comoda. E non si usa per consolare”. Così ho spiegato al mio ormai ex-alunno – così come spiego anche a voi – che, tra le molte cose che si apprendono a scuola, oltre a un po’ di discipline e, se va bene, a un discreto metodo di studio da utilizzare per gli studi successivi, non secondaria diventa la conoscenza della vita reale. Grazie, se va bene, alla grandezza delle persone che hai la ventura di incontrare o, viceversa, alle miserie di altre. Durante gli esami, poi (e te lo racconta uno che ha partecipato a commissioni di tutti i tipi, da trent’anni) affiorano le vere vocazioni di quelli che si sono fatti docenti per ripiego. In realtà avrebbero voluto fare altro. C’è chi, essendosi immaginato giudice, DEVE applicare la legge, nel senso del diritto astratto dell’eticità hegeliana, e, nell’ora immota della “controra” se ne torna a casa soddisfatto dopo aver individuato colpe e distribuito pene. Poi c’è il farmacista mancato di cui noterete l’acribia nell’ armeggiare la misurazione oggettiva, deprimendosi se lo 0.25 è diventato, ahimè, 0.50! Ma altre “figure”, di questa singolare Fenomenologia dell’esame, si vanno susseguendo. La psicologa è in grado di sviscerare – dal suo punto di vista, s’intende – la ricostruzione dettagliata di tutto il vissuto del malcapitato. E il coiffeur pour dames? Gli/le bastano solo pochi minuti per rovesciare, sugli ignari commissari, la sapida sequela di amori, separazioni, riconciliazioni e nuove rotture del candidato/a che sta per entrare. Insomma: una sorta di capera post-moderna, o, se preferite, la versione 2.0 di quel personaggio che, verso mezzogiorno, nei nostri paesi, era in grado di snocciolarti tutte le news apprese durante il giro della mattinata. Non raramente, infine, si manifesta il docente che, nella sua grandezza, si ritiene un genio incompreso. Che so? Un matematico che crede di essere la reincarnazione di Caccioppoli, trasformando l’esame in una performance che deve, sempre e comunque, épater les bourgeois. Capirete, cari ragazzi, che incocciare solo uno di questi personaggi significa rendersi molto problematico l’esame. E se, di tali figure, se ne concentrano due o pure tre, ecco che l’esame ce lo siamo bellamente giocato. Ma abbiamo detto che esso è una grande e, in Italia – in linea con la nostra tradizione culturale – melodrammatica rappresentazione rituale. Prendetelo, quindi, come tale. La scuola, l’abbiamo detto tante volte, è altro e non sarà mai una cosa seria se non partirà da quella verità, enunciata quasi cinquant’anni fa, da uno scomodissimo prete toscano di cui qualche volta abbiamo parlato: Non c’è peggiore ingiustizia che fare parti uguali tra diseguali. Vi chiedo: le “figurine” che vi ho disegnato riusciranno mai a comprendere una verità come questa? Sicché della scuola, tra qualche anno, ricorderete la lezione di qualche docente – ne avete avuto addirittura una legione e così avrete solo l’imbarazzo della scelta – e riderete di gusto ricordando le figurine che ancora, statene certi, saranno lì a giudicare, a pesare, a sviscerare, a pettegolare… Nel frattempo vi lascio un’ultima frase su cui, se avete un attimo di tempo, provate a riflettere. E’ del poeta tedesco Schiller: Mit der Dummheit kanpfen Gotter selbst vergebens. Contro la stupidità gli dei stessi combattono invano. Renato Caccioppoli – quello vero – così traduce questo verso nel suo linguaggio matematico. Teorema: Il fesso è fesso. Corollario: Non c’è rimedio.
Vi giungano, dal vostro ex-docente, gli auguri più cari per una vita molto più seria della scuola che avete frequentato
Amerigo Ciervo
PS. Così come nei titoli di testa del grande film di Costa Gravas Z l’orgia del potere, “ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti non è casuale, è intenzionale”.